Partita Doppia, la prima storia
Testo di Marta
Giacomo se n’era accorto, che ultimamente era sulle nuvole. Così una mattina lo affrontò nel giardino della scuola, mentre durante la ricreazione aspettavano il loro turno di salire sullo scivolo alto, per poi scendere giù lungo la pertica. «Guarda che l’ho capito, cos’hai». Nicola diventò un po’ viola e un po’ magenta, con uno spruzzo di lilla sulla punta del naso. «Sei triste per Dragon Ball, vero?». Nicola infilò le mani sudate in tasca e per finta biascicò un sì a testa bassa. «Senti, io non te lo volevo dire, ma mio cugino che ha tutti i fumetti mi ha spiegato che Crili non è veramente morto, che dopo un po’ di puntate resuscita perché Goku trova tutte e sette le sfere del drago». Nicola tornò del suo colore di sempre. «Sì, ecco… io ci ero rimasto male. Non deve morire mai nessuno, nei cartoni». Giacomo sorrise: «Sì, è vero. Pensa che mia sorella guardava un cartone, che si chiama Candy dolce Candy o una roba così, che uno muore cadendo da cavallo e un altro in guerra e un’altra rimane viva ma senza una gamba». «Come, senza una gamba?» «Sì, proprio senza. Come quando giochiamo al pampano, solo che lei la gamba non ce l’ha proprio». Nicola non rispose e salì sullo scivolo. Pensò che Lucia sarebbe stata la più bella della classe anche con una gamba sola. Le avrebbe regalato una sedia a rotelle tutta rosa, e l’avrebbe legata alla bicicletta per portarla in giro come in carrozza. Poi si vergognò un pochino, perché mica voleva che Lucia rimanesse con una gamba sola. Quando rientrò in classe, Nicola aprì di nascosto il dizionario di inglese che teneva sotto il banco, e scoprì che la gamba si può chiamare anche leg.
Decise che avrebbe fatto la dichiarazione d’amore a Lucia l’ultimo giorno di scuola, prima di Natale, e le avrebbe lasciato tutte le vacanze per pensarci, come fanno i grandi, nelle telenovele che guarda la mamma.
Aveva scritto con cura la sua letterina a Babbo Natale: gli aveva chiesto, di nuovo, la bicicletta rossa, e anche la serie completa dei DVD di Dragon Ball Z, la maglietta del Milan per suo fratello e un pacchetto di caramelle per i bambini poveri. Spiegò a Babbo Natale che era stato buono tutto l’anno, aveva sempre fatto i compiti, si lavava i denti anche dopo la merenda e non ha pianto quando la mamma lo ha portato dal dottore per il vaccino. Voleva spiegargli bene anche il resto, che voleva la bicicletta rossa per portarci la sua innamorata, ma pensò che a Babbo Natale queste cose non interessano.
Quella mattina si svegliò prima del solito, fece colazione, e dopo la doccia mise di nascosto due gocce della colonia di suo papà. Ripeté a memoria la frase, che nel frattempo si era un po’ allungata. Ora iniziava con “Ho scritto una little letter a Santa Claus e gli ho chiesto come present di Natale una bycicle tutta rossa…”, e da lì poi si ricollegava al giro lungo la street che porta fino alla beach. Sul pulmino sedette in fondo, da solo, ripetendo più volte a memoria la frase. Voleva dirgliela appena sceso, prima di entrare in classe, cercarla e dirgliela tutta di un fiato. Solo che, quando il pulmino si fermò davanti alla scuola, Nicola vide dal finestrino l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere.
Lucia pedalava in piedi sulla bicicletta rossa di Ernani, girando in tondo attorno all’altalena. Il pon pon del suo berretto sembrava ballare. Ernani batteva le mani, muoveva la bocca, forse cantava. Poi, quando l’autista del pulmino per la terza volta sbraitò a Nicola di alzarsi e scendere, Lucia frenò. Ernani prese la bici e lei gli diede un bacio sulla guancia. Poi avvicinò la bici alla ringhiera del cancello e la legò con una catena. Nicola pensò che non lo sapeva, come si dice catena in inglese, ma suo fratello una volta gli aveva spiegato che le catene da bicicletta non servono a niente, riesce a tagliarle persino un paio di forbici per il giardino. Ecco, queste parole Nicola le sapeva. Un paio di scissors per il garden, pensò. E ripeté queste parole molte volte, camminando, finché gli entrarono in testa.
Testo di Federica
Il primo giorno delle vacanze estive Nicola prese una decisione. Aveva presentato una pagella piena zeppa di insufficienze e i suoi genitori lo avevano minacciato di non farlo uscire fino a settembre.
“Però ho distinto in inglese!”
La sua osservazione non sortì l’effetto sperato e si ritrovò sdraiato sul letto della cameretta a contemplare il soffitto e proiettarvi i pensieri. Il fratello era partito per il campo estivo e così in quei giorni, poteva spadroneggiare in quello spazio di libertà di tre metri per tre.
Pensava che poteva telefonare a Giacomo e andare insieme al mare, oppure poteva prendere la bici grigia e scassata ereditata dal cugino e pedalare fino a raggiungere il punto in fondo alla beach che solo lui conosceva.
Un punto dal quale poteva osservare, non visto, una porzione di spiaggia frequentato da qualche tempo, da un gruppo di nudisti.
Poi pensò che mamma e papà non gli avrebbero mai permesso di uscire.
La pagella, in effetti, lasciava a desiderare e il suo congedo dalle medie era stato disastroso.
L’unico esponente del corpo insegnanti entusiasta di lui, era la Bardi, quella di inglese. Una signora piuttosto bassa di statura, dai lineamenti marcati, ma dalla messa in piega sempre perfetta. Sfoggiava dei completi color pastello che avrebbero fatto invidia alla vecchia Elisabetta d’Inghilterra, pensava Nicola.
La Bardi entrava in classe a testa alta, posava la borsa sulla cattedra e immancabilmente salutava gli studenti: “Good morning boys and girls”. Nel frattempo, volavano astucci e aeroplani di carta mentre dal fondo dell’aula qualcuno urlava: “I wanna be Anarchy!”
Da qualche tempo Nicola aveva scoperto la musica punk; prima con i Green Day, poi era andato alla radice del movimento e passava le ore a fare il matto come i Sex Pistols.
Si chiudeva in camera, le cuffie ficcate nelle orecchie, la musica a palla e urla e salti sul letto, finché sua madre bussava alla porta dalla disperazione, minacciandolo di buttare tutto il suo ciarpame nel cassonetto.
Nicola divagava: i pensieri sul soffitto della stanza pieni di luce e fumo.
Come detto, aveva preso una decisione: avrebbe fatto tutto quello che occorreva per andare alla festa di Lucia.
Anche se, dopo le elementari, frequentava un’altra scuola, Nicola non l’aveva persa di vista. Il pomeriggio sapeva quali posti frequentava e faceva in modo di camminarle davanti per farsi notare: una specie di pedinamento al contrario.
Lucia portava i capelli sempre lunghi, a volte raccolti in una coda morbida, a volte sciolti. Quest’ultima pettinatura era quella che Nicola preferiva: quando le ricadevano sugli occhi, Lucia aveva una grazia tutta sua nello scostarli dal volto.
Il fatto è che Nicola era sempre senza il becco di un euro.
Il fatto è che Lucia aveva un sacco di ammiratori.
Il fatto è che avrebbe voluto presentarsi da lei spavaldo, con jeans, camicia attillata e cravatta rossa come i Green Day.
Il fatto è che i suoi l’avevano messo in castigo e adesso pensava a come scappare di nascosto.
Il fumo si diradò un poco: avrebbe chiamato Giacomo.
Attese che la madre uscisse per andare a fare la spesa e si attaccò al telefono.
“Jack, mi devi aiutare. Tra due settimane c’è la festa a casa di Lucia e io ci voglio andare a tutti i costi.”
“Ancora Lucia? Ma lasciala perdere. Sono anni che le stai dietro e lei nemmeno ti guarda”.
“Non mi interessa. Voglio fare colpo. Quella sarà la mia occasione. Se fallisco mi metto a studiare il basso e fondo un gruppo”.
“Tu sei fumato, anzi hai fumato, dì la verità!”
“Magari, Jack! Dai, quando arriva mia mamma le dico che ti ho chiesto di darmi ripetizioni di matematica. Sa che sei bravo e se la berrà. Le prossime settimane ti chiedo di venire a casa mia puntuale come un orologio per darmi ripetizioni e poi la sera della festa possiamo dire che ti raggiungo a casa per venirti incontro e magari che mi fermo a dormire da te, che ne dici?”
“Non funzionerà!”
“Fidati! E’ l’ultimo favore che ti chiedo”.
Nicola interruppe la comunicazione prima che Giacomo potesse ribattere.
Al rientro della madre Nicola l’aiutò a mettere a posto la spesa e le raccontò di essere molto dispiaciuto per i brutti voti in pagella e che, per dimostrare la sua buona volontà, aveva chiesto a Giacomo di venire a casa per dargli ripetizioni di matematica.
La madre lo fissò. Nicola sostenne lo sguardo.
A partire dal giorno seguente Giacomo iniziò le finte ripetizioni di matematica, che proprio del tutto finte non erano.
“Già che vengo ripasso pure io” gli disse l’amico.
“Sei proprio una secchia” ribatté Nicola.
Il giorno della festa, Nicola riuscì a convincere i suoi a lasciarlo andare da Giacomo per le consuete lezioni. Fu più difficile del previsto: nonostante l’impegno dimostrato in quei quindici giorni, erano ancora troppo arrabbiati per il disastroso risultato scolastico.
Rimaneva il problema della sera: l’aver strappato il consenso dei suoi per l’uscita extra, l’aveva lasciato senza argomenti per la seconda parte del piano.
Nicola era fiducioso. Qualcosa si sarebbe inventato di certo.
Aveva messo la camicia bianca attillata nello zainetto insieme a un paio di tubi di Pringles: il suo contributo per la festa.
Alle 16 in punto, salutò la madre e inforcò la bici pedalando con foga per raggiungere la casa dell’amico. Immaginava di dover liberare Lucia dalle mani di un bruto, l’Ernani, tanto per fare un nome. Quello scemo le ronzava intorno continuamente e Nicola sentiva un calore partirgli dalle orecchie e diffondersi per tutto il corpo, quando lo vedeva avvicinarsi a lei.
Giunto a casa di Giacomo cacciò l’immagine dell’Ernani dalla mente per far posto ai piani di fuga.
Casa di Lucia non distava molto da quella di Giacomo, giusto un paio di isolati, che avrebbero potuto raggiungere comodamente in sella alle bici.
Nicola non riuscì a convincere Giacomo a saltare matematica per progettare l’uscita e quel pomeriggio le equazioni non gli entrarono in testa.
L’unica equazione che riusciva concepire era Festa uguale Lucia, quindi Lucia più Nicola uguale Amore.
Dopo due ore che a lui parvero non finire mai, finalmente riuscì a concentrarsi e a portare Giacomo dalla sua parte.
“Jack, tu ci vai alla festa no?”
“Sì”
“Tua mamma non sa che sono in castigo e dunque non si insospettirà se vengo via con te, giusto?”
“No”
“Allora dico ai miei che rimango a cena da te e che torno a casa un po’ più tardi, dato che vogliamo finire un certo numero di esercizi, che ne dici?
“Non funzionerà!”
Nicola sbuffò, chiamò casa, raccontò la bugia e sorrise soddisfatto all’amico.
“Jack, sei pessimo. Hai visto? Vengo con te alla festa. Facile come un’addizione. Devo rientrare per le 21, dunque prepariamoci e andiamo. Non posso perdere tempo.”
Nicola indossò la camicia attillata e costrinse Giacomo a frugare nell’armadio dei suoi genitori per recuperare una cravatta. Ne trovarono una nera e sottile che a Nicola piacque. Persero un bel po’ di tempo nel tentativo di fare il nodo, ma grazie a un video scovato su internet, in qualche modo ci riuscirono.
Volarono sulle biciclette e finalmente raggiunsero la casa dove abitava Lucia.
Nicola vide il Phantom F12 con le fiamme sulla scocca che Ernani aveva ricevuto dai suoi genitori come regalo per la promozione, legato al cancelletto di ingresso e gli si infiammarono le orecchie.
“Il fighetto è già qui” pensò a voce alta.
Il portone si aprì e Nicola salì le scale a due gradini per volta, mentre Giacomo cercava di stargli dietro col fiatone. “Non correre! Non ci insegue nessuno. Sei pazzo!”
Alla porta lo attendeva la sorella maggiore di Lucia. “Ciao, accomodatevi. Potete lasciare gli zaini in camera di Lucia, là sulla destra. Se andate dritti trovate la sala dove ci sono tutti.”
Nicola capì solamente che mancavano pochi metri alla meta, pochi passi lo separavano dal tempo che avrebbe usato per contemplare Lucia e magari anche per parlarle.
Si tolse lo zaino, lo cacciò tra le braccia della ragazza e noncurante dello sguardo di fuoco che gli rivolse, partì per raggiungere la sala.
La stanza era in penombra. Le persiane erano state chiuse per creare un po’ di atmosfera anche grazie a un paio di luci strobo e psichedeliche piazzate ad arte. Sentì la musica: l’ultimo singolo degli Zero Assoluto. La stanza era piuttosto grande e in fondo sulla destra notò il tavolo con beveraggi e cibo assortito.
Nicola iniziò a scandagliare il salone alla ricerca di Lucia. C’era già parecchia gente: la cosa lo infastidì e pensò al tempo perso per farsi il nodo della cravatta.
Riconobbe alcuni compagni e i ragazzi della piazzetta intenti a bere e mangiare patatine.
Vagò per un po’ da una parte all’altra senza trovare Lucia.
La musica cambiò: “Don’t wanna be an American Idiot!” I Green Day!
Le sue gambe partirono da sole e Nicola iniziò a saltare per la stanza e a pogare. Si sentiva libero e gli spintoni che riceveva di rimando lo caricavano di nuova energia. Cominciò a girare su se stesso e a ciondolare il capo, finché si formò il vuoto intorno e vide due ombre disegnate nello specchio della porta.
Si bloccò di colpo.
Lucia ed Ernani entrarono nel salone mano nella mano.
Nicola si smaterializzò per ricomparire davanti al Phantom dell’Ernani.
Una rabbia incontenibile e solida si impossessò delle sue mani.
Buttò il motorino per terra, prese un temperino dallo zaino e fece a pezzi il sellino.
Con rinnovata energia saltò sul motorino più e più volte finche non sentì il rumore dello schianto.
Spossato e soddisfatto si sedette accanto al nemico vinto e si allentò la cravatta.
Testo di Andrea
Nicola scivola su via Indipendenza senza fretta, pedala lentamente, non gli piace correre, non vuole sudare.
La strada verso il centro è poco trafficata e può godersi il tepore della primavera e l’aria fresca sulla faccia.
Si sente strano, una di quelle sensazioni che sono come una nota di fondo. C’è qualcosa in questa giornata che sembra la chiusura di un cerchio.
Ripensa agli ultimi cinque anni, e sorride. Per la prima volta gli sembra di non aver sbagliato un colpo.
Non ha mai avuto fiducia nelle sue scelte, ma ora, mentre l’arco medioevale della porta gli viene incontro, comprende che tutte le scelte sbagliate che ha fatto sono state comunque indispensabili a portarlo qui.
Se non avesse spaccato il motorino di Ernani, se non lo avessero beccato subito, se non avesse dovuto ripagarlo, non sarebbe mai andato a lavorare come cameriere da Fuoco e Fiamme, il ristorante pizzeria del paese. Non avrebbe mai pensato che in fondo per lui continuare gli studi non aveva molto senso, che era meglio concentrarsi sul guadagnare dei soldi.
E se non avesse abbandonato gli studi, non avrebbe deciso di lasciare il paese per la città.
E se suo fratello non se ne fosse andato prima di lui forse non avrebbe avuto il coraggio di farlo.
Suo fratello, raggiunta la maggiore età si era arruolato ed era partito volontario per andare a combattere in un paese che Nicola nemmeno sapevo dove fosse.
Sua madre aveva pianto per settimane, subito prima e subito dopo la sua partenza. Piangeva di nascosto, in camera con la porta chiusa. Pensava non la sentissero, ma la sentivano tutti.
Suo padre non piangeva, mostrava orgoglio, ma era un modo di nascondersi anche il suo. Aveva sempre il volto scuro, si vedeva che era preoccupato.
In quei giorni Nicola si sentiva trasparente, come se non esistesse, nessuno sembrava essere più arrabbiato per il casino della festa, nessuno si preoccupava se mangiava poco o se andava male a scuola.
Finse anche lui, si adeguò a quella che sembrava essere l’attività principale della famiglia. Fingeva che non gli importasse più di tanto essere diventato trasparente. Si diceva che sarebbe stata solo questione di tempo: una volta partito suo fratello si sarebbe riappropriato del suo posto in casa, forse avrebbe addirittura guadagnato più attenzioni, essendo diventato l’unico figlio a portata di mano.
Non andò così.
I pensieri dei suoi genitori rimasero sempre concentrati sul suo fratello soldato. All’ora di pranzo a tavola si guardavano tutti i telegiornali e non si poteva parlare. Quando finiva uno, si cambiava canale e si passava su un altro. Sua madre cercava di immagazzinare e elaborare informazioni su tutto, per elaborare una teoria sociopolitica che potesse darle una qualche idea sul futuro del figlio.
Cucinava solo fettine di carne e patate bollite.
Una sera Nicola interruppe il rito del telegiornale. Masticò a lungo un pezzo di patate e quando l’ebbe ingoiato disse che non avrebbe continuato gli studi. I suoi genitori, ne era certo, si sarebbero opposti.
Sua madre si allungò sul telecomando e tolse il volume al televisore. Lo guardò per qualche istante rigirandosi in testa le sue parole. Quando fu sul punto di parlare parlò invece suo padre, disse che era una scelta ragionevole.
Sua madre ridiede volume al televisore.
La sera Nicola andava a lavorare da Fuoco e Fiamme. Era bravo, cercava di essere gentile coi clienti, soprattutto con le famiglie, gli piaceva che, di rimando, loro fossero gentili con lui, che gli dicessero bravo, lo ringraziassero. Coi turisti parlava in inglese. I turisti davano grosse mance. Gli italiani soltanto spiccioli, ma a lui non importava molto. Più di ogni altra cosa voleva qualcuno che fosse contento di lui. Anche Gaspare, il titolare, era contento di lui. Gli diceva sempre che era un coglioncello inutile, ma lo diceva ridendo e si capiva che pensava esattamente l’opposto.
La paga non era un granché, ma spendere non spendeva niente. Quando ebbe finito di ripagare a suo padre i soldi che aveva anticipato per i danni al motorino di Ernani, si aprì un conto in banca e cominciò a mettersi da parte un po’ di euro.
I pomeriggi li passava con Giacomo, che era l’unico amico che aveva. L’estate in cui si diplomò fecero la loro prima vacanza da soli. Pagò quasi tutto Nicola.
Al ritorno Giacomo si iscrisse all’università e lasciò il paese.
Nicola restò lì ancora due o tre mesi, poi decise di andare in città anche lui.
Gaspare lo raccomandò a un suo vecchio amico che aveva un ristorante nel centro storico e cercava camerieri. Parlò così bene di lui che per il primo mese il suo nuovo padrone lo ospitò in casa sua.
Dopo si trovò una stanza in periferia, in condivisione con due ragazzi albanesi.
Uno, Ismail, non parlava mai. L’altro non faceva altro.
Quello che parlava si chiamava Gjergji, ma si faceva chiamare Giorgio, fingeva in tutti i modi di essere italiano. Diceva che tutti credevano fosse italiano e che era un bene. Se pensano che tu sia albanese ti prendono subito per uno spacciatore, ti sbattono contro un muro e ti perquisiscono. E non è una buona cosa, se sei effettivamente uno spacciatore.
Dopo qualche mese Nicola chiese a Gjergji e Ismail di partecipare al loro commercio. Non era un gran commercio, ma questo era il suo punto forte. Se compri in grande quantità, aveva detto Gjergji, pensano subito che tu sia uno spacciatore. E non è una buona cosa, se sei effettivamente uno spacciatore.
Perciò compravano solo medie quantità di erba e fumo. Ogni tanto un po’ di MDMA.
Tagliavano tutto e rivendevano a buon prezzo. Nicola faceva le consegne.
Andava in giro in bicicletta. Pensava che comunque nessuno avrebbe mai sospettato di un italiano in bicicletta.
La bicicletta trasmette sempre un’idea di onesta, aveva detto Gjergji. Ed è una buona cosa quando in realtà non sei una persona onesta.
Nascondeva i pezzi di fumo nel manubrio, quando si fermava sfilava una manopola, lo estraeva e rimetteva a posto la manopola. Una cosa veloce e semplice.
Le buste d’erba le attaccava sotto la sella con lo scotch.
Col tempo si fece un buon giro di clienti, per lo più studenti universitari che gli segnalava Giacomo.
Gli piaceva vendere agli studenti. Era incredibile quanto si sentissero furbi e adulti e quanto invece fossero piccoli e scemi. Alla maggior parte avrebbe potuto vendere del cartone o della maggiorana e non si sarebbero accorti di niente. Prendevano tutto, pagavano coi soldi della paghetta che gli spedivano mamma e papà e se ne andavano belli felici verso il loro illuminato futuro.
Osservandoli, per la prima volta in vita sua, Nicola cominciò a sentirsi superiore a qualcuno, più grande, più esperto. E soprattutto più intelligente.
Si concesse vestiti più costosi, telefoni più moderni, una xbox. Più guardava le cose che comprava più pensava che a pagarle era stata la stupidità di tutti quei ragazzi ricchi, gente che non aveva la minima idea di cosa significasse lavorare.
Appoggiato al muro, accanto alla bici, guardando le persone entrare e uscire dalla facoltà, Nicola sorrideva.
Finché un giorno, qualche giorno fa, ha sentito quella voce chiamare il suo nome e i piedi gli sono sprofondati nelle sabbie mobili del tempo.
Si è voltato a destra e ha visto Lucia in piedi accanto a lui.
”Cosa ci fai qua?” ha chiesto lei.
Nicola ha estratto i piedi dalle sabbie mobili, si è ripreso, ormai era cresciuto, sapeva cosa fare. Ha vacillato per un secondo, ma un secondo soltanto. Ha sorriso.
”Studio – le ha detto – come te.”
Le ha raccontato brevemente che aveva ripreso gli studi, che aveva preso il diploma da privatista, che adesso era iscritto a lingue.
La sceneggiata ha funzionato, Nicola ha imparato a capire quando una ragazza abbocca all’amo, ormai. O almeno lo crede.
Le ha detto che doveva scappare, che aveva una lezione, ma che avrebbero potuto “prendere un aperitivo una di queste sere. Lunedì?”
Lucia ha accetto.
E oggi è lunedì e Nicola non lavora, il ristorante è chiuso, e lui pedala lentamente per via Indipendenza, verso il suo appuntamento con Lucia.
Pensa che in fondo non l’ama più, ma che scoparla avrebbe senso, chiuderebbe un cerchio, appunto, sarebbe un’altra rivincita. Nei confronti del paese, dei suoi compagni di scuola, di quello stronzo di Ernani.
Lucia lo aspetta in centro, sotto i portici. Nicola arriva, scende al volo dalla bici e la bacia sulla guancia con un gesto atletico. Passeggiano per un po’, chiacchierando, ricordano i tempi di quando erano bambini. Lui le chiede di Ernani, lei gli dice che era solo uno stronzo. Lui si ferma e le sorride, sorride anche lei. Lui si allunga per baciarla. Una voce dice: “Ehi!” Lucia dice: “Tommaso!” Tommaso dice: “chi cazzo è questo?” indicando Nicola che risponde: “chi cazzo sei tu?”
“Il suo fidanzato” risponde Tommaso indicando Lucia.
Lucia non dice niente e Nicola si sente forte perché lei non ha ancora detto: “è solo un mio amico”. Pensa che lei si sia stancata di questi ragazzotti senza arte né parte.
Dà una spinta a Tommaso e gli dice: “togliti dal cazzo, studentello di merda.”
Tommaso fa un passo indietro, ha una faccia stupita. Poi fa un passo in avanti e abbatte un pugno pesante come un incudine sulla faccia di Nicola che vola all’indietro, trascinando con sé la sua bicicletta.
Dalla sella si staccano due bustine d’erba, Nicola allunga una mano e le prende e pensa già di rialzarsi e spaccare la testa a quel ragazzino di merda di Tommaso, ma prima che possa farlo l’altro gli salta addosso, lo gira a faccia sotto, gli pianta un ginocchio nella schiena e dice a Lucia: “prendi il telefono. Chiama!”
Poi rivolto a Nicola: “sorpresa, stronzetto, non sono uno studentello di merda”. E dopo una pausa molto teatrale: “Sono carabiniere”.
Testo di Giulia
Lavoro di pubblica utilità, o sostituzione della pena, o sanzione penale, se vi piace di più. Era divertente che un’unica cosa si potesse chiamare con tanti nomi, pur restando sempre uguale nella sostanza. Nicola si ricorda che anche da bambino questo fatto lo ha affascinato, si ricorda di aver pensato: tavolo e table indicano lo stesso oggetto, due parole per la stessa cosa. È un pezzo che Nicola si scopre assorto in pensieri che ha già pensato, intere frasi che la sua mente ha già ospitato una, due, dieci volte. Gli accade così spesso ultimamente, che ha paura che le capacità del suo cervello siano finite del tutto, di essersi bevuto il bicchiere della staffa. Ma non lo dice a nessuno.
Oggi è il suo compleanno e insieme il suo ultimo giorno di lavoro alla Ciclofficina. La pena sostituita è stata estinta, per così dire. Stamattina c’è Nerio sulla porta ad aspettarlo: Nico legala fuori la tua bici, dentro non c’è più spazio. Che cazzo dici non c’è più spazio? Ci hanno portato ventiquattro biciclette, scassate come giocattoli. È tutto pieno. Nicola lo guarda interrogativo, Nerio distoglie lo sguardo, butta via la sigaretta e rientra.
Quando Nicola varca la soglia della Ciclofficina, sul tavolone da lavoro, spostato al centro della stanza, in mezzo a vassoi di cibo e piattini colorati, c’è una torta di compleanno per lui. Dietro il tavolo Mohamed, Nerio, Ermis e Fabio che gli sorridono: buon compleanno! Nicola non sa cosa dire, ride, poi gli trema un po’ la voce quando dice grazie. Non se lo aspettava, non se lo aspettava proprio. La torta è una torta di compleanno in piena regola, di quelle fatte in pasticceria, con la crema di burro che ti si attacca alla lingua e la scritta Buon Compleanno Nico di cioccolata a nastro. Ci sono persino le ciliegie candite e sui lati la granella di nocciola. Al centro, una candelina tenuta in piedi da un piccolo piedistallo argentato: due e quattro. Ventiquattro, compiuti oggi, il ventiquattro di Gennaio. Qualcosa vorrà dire. I numeri non gli sono mai piaciuti, ma quel ventiquattro che si ripete deve voler dire qualcosa, per forza. Allora in quel momento si affaccia, dietro il groviglio che ha dentro, un’idea lucida e rotonda come un sasso. La guarda affiorare, la sente salire nello stomaco mentre chiacchiera con Fabio, mentre si mette un tramezzino nel piatto. Fabio gli dice che è stato proprio bravo in questi nove mesi, ha imparato più cose di quante lui gliene abbia insegnate. Nicola sente la sua idea crescere sempre più rotonda. Fabio gli dà una pacca sulla spalla e anche se Nicola non crede di aver capito bene, gli viene da sorridere e si vede per un attimo con gli occhi di Fabio: quello che vede gli piace. Quando Nerio si avvicina a lui e gli parla, quasi non lo ascolta perché la sua idea, grande come un uovo, adesso, gli occupa tutta la gola. Vorrebbe dirglielo, ma non ci riesce. Vorrebbe dire a tutti che oggi si sente pronto per una nuova vita, che anzi c’è già dentro con tutti e due i piedi. Sarà questa festa a sorpresa, per lui – più di ogni altra cosa Nicola desidera questo, che qualcuno sia contento di lui, ma si guarda bene dal dirlo – sarà questo ripetersi del numero ventiquattro che ora gli sembra davvero un messaggio, una congiuntura astrale o cosmica o almeno un cazzo di segno, mandato da chissà chi, ma diretto proprio a lui; sarà che stamattina sua madre lo ha chiamato per fargli gli auguri, e lo ha chiamato anche Giacomo, e non si parlavano da tanto, ma si sente come in pieno sole: investito dalla luce, ecco, proprio così si sente. Ma è meglio non dirlo, quelle parole in bocca sua non riesce neanche a immaginarsele. Se le tiene per sé, ingoia l’idea come un sasso e la conserva al buio del suo stomaco.
Mohamed gli chiede come ci si sente l’ultimo giorno e Nicola non sa rispondere. Mohamed è lì per un motivo simile al suo, Nerio invece per guida in stato di ebbrezza. Ermis non lo ha mai detto, il perché.
Finita la festa, Nicola aiuta Fabio a spostare il tavolo da lavoro al suo posto, contro il muro.
C’è quella Olmo blu con la catena spezzata, gli dice Fabio. Ci pensi tu?
Nicola la guarda, sfila la vecchia catena che ancora penzola dalle corone, dà un’occhiata al pacco pignoni e sceglie una catena nuova. Ha imparato a fare ogni cosa con una certa disinvoltura e questo gli piace. Prima la corona anteriore, poi quella posteriore, catena a destra del primo ingranaggio, bilanciere, poi a sinistra del secondo ingranaggio. Quando cuce insieme le due estremità con lo smagliacatena, è come chiudere un cerchio. E anche questo, suo malgrado, è un pensiero che è sicuro di aver già pensato. Ma non importa, oggi si apre un periodo nuovo, da oggi nel suo cervello entreranno nuove idee, cose che non ha mai pensato prima, a costo di ficcarsele a forza nella testa, come a forza, adesso, sta infilando un copertone nel cerchio. Ecco, forse ha trovato delle parole migliori per dirlo: si sente come se dopo aver forato e riparato molte volte la stessa ruota, adesso avesse finalmente sostituito il copertone e anche la camera d’aria che lo riempie. Nuovo dentro e fuori. Queste sono parole accettabili, possono stare persino nella sua bocca, non fa fatica ad immaginarsele. Si avvicina a Nerio per parlargli, anche perché non si vedranno più tutti i giorni, d’ora in poi. Si avvicina e sta lì fermo. Nerio alza lo sguardo dal cambio della bici che sta riparando, ma Nicola non sa più cosa vuole dire, da dove iniziare, così dice una cosa qualsiasi, come se non importasse.
Quel pomeriggio alle tre saluta tutti in fretta, dice grazie ancora una volta, poi scappa via perché non è tagliato per quelle situazioni.
Esce, gira l’angolo, e la sua bicicletta non c’è più.
Non può essere, l’aveva legata lì, forse si sbaglia, forse è là dietro quella panchina.
Se la sua bici non c’è più allora è una congiura ai suoi danni, è abituato a difendersi, ma così il gioco è sleale, così sono capaci tutti. Fa un giro lì attorno, si aspetta una smentita, quel ventiquattro di Gennaio gliela deve, una smentita, un’ammenda: è la vita che è in debito con lui adesso, non il contrario.
Come schiaffi presi a caso sulla faccia. La rabbia è qualcosa che si mastica, sente un bolo di rabbia duro sotto i denti. La sua bicicletta, messa insieme in officina con tanti pezzi diversi, costruita con le sue mani, dipinta a pennello di verde scuro, quel verde bandiera che gli piace tanto, portata via.
La sella Italia Turbo 1980, recuperata come nuova, il nastro del manubrio in tinta, il campanello retrò in ferro cromato…
Rivede Nerio che gli dice: Nico ti ho trovato il verde, quello che volevi. Un avanzo di latta scovato da un suo amico, che ha un colorificio.
Si avvicina e per terra c’è la catena segata in due. Suo fratello una volta gli aveva spiegato che le catene da bicicletta non servono a niente, riesce a tagliarle persino un paio di forbici per il giardino, gli aveva detto. Un paio di forbici per il giardino, gli ronzano in testa queste parole e la voce di suo fratello. In culo suo fratello, in culo Nassiriya, in culo anche sua madre che si era rovinata gli occhi a piangere. Stai calmo, gli diceva sempre Fabio. Come si fa a stare calmi? Perché andava sempre a finire così? Sempre a lui cazzo? Non c’era qualcun altro che potesse pagare al posto suo ogni tanto? Si mette a correre e chissà perché si rivede ragazzino quando correva sulle scale di casa di Lucia, con Giacomo dietro a dirgli vai piano, tu sei pazzo! Vai piano, stai calmo, vai piano, stai calmo, c’era sempre qualcuno che sapeva che cosa era meglio fare. Lui mai, lui non sapeva consigliarsi da solo. Nicola corre sul viale, prima in mezzo alle macchine come un pazzo, poi sulla ciclabile lungo la strada. Corre schivando le biciclette che gli vengono incontro, raccoglie anche un bel po’ di insulti, finché lo vede. Sarà a quaranta metri davanti a lui, un tizio con un passamontagna nero, su una bicicletta che gli sembra la sua. È la sua. Pedala in piedi, va veloce il bastardo, viene verso di lui. È una sfida? Un attimo dopo gli è accanto e Nicola lo spinge e lo atterra a lato della strada. Gli urla sulla faccia, lo prende a pugni, lo strattona per la giacca. Il ragazzo perde il cappello di lana. Era un cappello, non un passamontagna. Guarda Nicola con gli occhi sbarrati e non si difende, mentre un filo di sangue gli scende dal labbro e gli sporca la sciarpa. Nera anche la sciarpa. La bicicletta invece è blu.
Testo di Dario
Nell’ambito delle attività di controllo del territorio, finalizzate a prevenire e reprimere i casi di microdelinquenza ai danni dei cittadini e turisti, gli agenti dell’Unità Operativa San Lorenzo in Piazza Garibaldi, ieri pomeriggio, hanno arrestato N.A. di anni 24, che aveva tentato di sottrarre la bicicletta in uso al coetaneo D.M. All’atto del fermo il giovane N.A. ha opposto resistenza aggredendo anche un pubblico ufficiale intervenuto con l’e-bike di recente dotazione al corpo dei vigili urbani. L’ufficiale E.C. ha riportato lesioni guaribili in cinque giorni salvo complicazioni mentre, D.M., in stato confusionale è stato ricoverato nel reparto di neurochirurgia. Dai controlli presso la Polizia Giudiziaria N.A. risulta scarcerato da nove mesi da pregressa detenzione presso la Casa Circondariale del capoluogo e al termine di un percorso di reinserimento di successivi nove, presso la Ciclofficina di F.L. L’episodio segnala l’efficacia dei nuovi mezzi a pedalata assistita il cui telaio leggero e robusto modificato per la polizia comunale e completo del kit Bosch, uno dei più avanzati al mondo, consente rapide ed efficaci operazioni, come quella che ha favorito l’arresto del balordo. La batteria al litio, che si ricarica in circa due ore e mezza, garantisce un’autonomia fino a 90 chilometri. Il pieno costa meno di 5 centesimi. Il sindaco, ieri mattina, 24 gennaio, inaugurando la Settimana Green, ha ufficialmente varato la flotta dei “Nuovi mezzi veloci, non inquinanti, economici, perfetti anche per il presidio del traffico”. Immediatamente operativi, al termine della conferenza stampa, iniziavano il loro servizio. “Resterà solo una promessa, un’operazione di facciata, come la pedonalizzazione dei viali, mai pienamente realizzata e al centro di numerose polemiche con i ciclo attivisti?”, gli è stato chiesto. “È vero, potrebbe sembrare iniziativa estemporanea – ha replicato il sindaco – ma, è frutto di una programmazione a lungo termine. Questo, non espone il progetto delle e-bike a rischio di fallimento. E poi altri grandi centri urbani hanno già puntato sulla bicicletta con successo.”
Gira sul regionale, Maria, parleranno di tuo figlio!
Oddio, no!
Ho detto regionale, Maria. Al bar ho letto il Gazzettino. Nicola è in quarta pagina. Gira.
Mohamed, Nerio ed Ermis, i compagni della Ciclofficina, in cella, erano già accalcati davanti al vecchio monoscopio Mivar. Vista l’ora di cena, col languore, pensando alla torta del compleanno; Fabio, il tutor di quel velleitario tentativo di riabilitazione – tale fu il suo primo pensiero – stava aprendo l’involto di domopak che Nicola aveva insistito di mettere da parte.
La famiglia fece fronte comune, non rielaborò l’ennesima caduta, non tese la mano e non si prodigò a trovargli un buon avvocato. Suo padre, per primo, emise la sentenza: “Per me è morto!”, e l’occhiata con la quale promulgò la condanna, escluse ogni possibilità di replica. La mela marcia era ormai putrescente e bisognava escluderla dal cesto pena, inevitabile contagio. Il fratello più grande, militare di carriera, si uniformò senza fatica al precetto, migliaia di chilometri distante, nell’altro continente. Gli ordini non si commentano, si eseguono: deformazione professionale. Così la madre. Fu scossa dall’osservanza un anno e mezzo più in là, e non per merito suo. Allorché ritenne che le maglie dell’inferriata intessuta dal patriarca si fossero allentatate, solo allora, e dopo più di una reticenza, riassaporò l’odore di chiuso della sala ricevimento parenti, il fastidio della perquisizione, il rancido della menzogna che avrebbe dovuto sostenere, se fosse stata scoperta al suo ritorno a casa.
Non essendole giunta alcuna richiesta – non si era neppure attivata per accoglierla, a dire il vero – portò con se una confezione di quattro mutande dell’Oviesse, offerta speciale, una bianca, una grigia, una nera, una a pois, un pigiama di maglina del figlio grande, e una sportina con due chili di arance. Al colloquio era così nervosa che parlò sempre. Lo aggiornò sui ragazzi della piazzetta, quella del paese. D’estate avevano chiesto: “Dov’è Nicola?” E poi di Gaspare, il ristoratore che, chissà come, l’aveva rintracciata.
Qualsiasi cosa, signora, non si faccia scrupolo …
Maria, non abbiamo bisogno di niente! Lascia libero il telefono.
Capii che quel Gaspare era l’unico ad aver riconosciuto quel poco di buono che albergava nel suo Nicola. Infine, di Giacomo, incontrato per caso da Mediaworld.
E Nicola?
Eh, … e tu, l’università?
Me lo saluta tanto quando lo vede? Promesso?
Si era allontanato non prima di averle estorto il giuramento.
“Una promessa è una promessa”, Maria glielo diceva sempre al suo Nicola quando era piccolino. Cos’era successo dal momento in cui non riuscì più a prenderlo in braccio? Nel parcheggio del grande magazzino compilò i moduli necessari per l’autorizzazione alle visite ma, una volta ottenuta, omise al figlio che avrebbe dovuto ringraziare Giacomo e non lei.
Ora, un pugno di colloqui dopo – Maria li affrontava sempre clandestinamente – cosa c’era per Nicola al di là del cancello, se non trent’anni sulle spalle?
Incistato nella mente di Nicola, il timbro acuto dell’avvocato d’ufficio che gli aveva pedantemente illustrato come chiunque cagioni una lesione personale, dalla quale derivi una malattia del corpo o della mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e che se la malattia ha una durata superiore ai venti giorni: “Sarà superiore”, aveva sussurrato infilandosi in una pausa, svuotato, “e che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo eccedente ai quaranta giorni … “
Fu eccedente, di poco ma, eccedente: quarantacinque. Le circostanze furono aggravanti e in più si aggiunse la resistenza a pubblico ufficiale. Il Pubblico Ministero chiese cinque anni e otto mesi. Il tribunale decise per quattro più sei ma, questa è storia di ieri.
Cento anni dopo la fine del primo conflitto mondiale, Nicola si accingeva a varcare il cancello oltre il quale aveva lasciato la libertà il giorno stesso della riconquista. Quattro anni e sei mesi prima, il bolo di rabbia era esploso, schizzando tutt’intorno, lasciandolo infetto, sanguinante e ammanetato. Nessuno sconto, nessuna riduzione di pena, neppure per buona condotta. Opportunità di recupero e attenuanti generiche, dissipate nel precedente periodo di detenzione. In carcere cercò di indagare le ragioni dell’ira. Altro non poteva fare se non contare le ore. Non era scemo: meglio cercare le risposte. Cominciò a scrivere e, se stanco, a leggere. Per fortuna, la biblioteca era ben fornita. Tra le migliaia di righe cercò con ostinazione qualcosa che confutasse la convinzione che il mondo fosse popolato da lupi famelici e lui solo, agnello sacrificale, residua avanguardia del circolo dei giusti. Non doveva più accadere di perdere il controllo al punto da non riconoscere neppure i colori.
E ora? Cosa c’era al di là del cancello?
Finalmente lo sguardo poteva spaziare, più lungo dei pochi metri concessi nel quadrilatero del cortile che aveva alle spalle, due barriere più in là. Notò i viali, pedonalizzati: quel sindaco era stato di parola. Si compiacque della visione d’insieme poi, i dettagli, diventarono protagonisti. Ciascun ippocastano portava sul fusto una corona di bandiere e così, sia a destra che a sinistra, era tutto un patriottico svolazzare. “Non credo che sia per me” – pensò. Poi il suono di una bicicletta portata a mano anzi, due, emerse in primo piano. Non si girò subito perchè considerò quel tagatlan, tagatlan, taglatan un’ottima colonna sonora per i titoli di testa del nuovo film della sua vita.
Jack!
Nicola! … com’è?
Un po’ stordito. E tu?
Tutto ok. Mi sono laureato …
L’ho sempre detto che sei una secchia.
… e sto per diventare papà.
Tu papà?
Sì.
Quando?
Fra tre mesi, in autunno.
E le bici?
Una è per te.
E per andare dove?
Lontano.
Ma poi devi tornare.
Certo, in autunno al più tardi.
Non ho un soldo.
Neppure io l’avevo quell’estate. Ci pensasti tu.
Non muore mai nessuno nei cartoni, vero?
Nessuno. In sella, andiamo.
Andiamo.